Insegnare il jiu jitsu brasiliano è indubbiamente molto complesso. Districarsi in mezzo ad una miriade di posizioni, tecniche e dettagli di una disciplina, che all’apparenza sembra essere infinita, è molto difficile.
Lo è ancora di più per un insegnante scegliere il percorso didattico da proporre ai propri allievi in modo da favorire un apprendimento efficace.
Tuttavia la scelta delle tecniche da mostrare e come organizzarle nell’arco dell’anno accademico non sono gli unici problemi: la bellezza del jiu jitsu brasiliano, la rivoluzionaria concezione che Maeda (trasmessa poi ai Gracie) che ha reso questa disciplina così efficace, sta nella non divisione della lotta in fasi più o meno distinte, come invece avviene in discipline come il judo, la lotta olimpica, il ju jitsu giapponese.
Così il jiu jitsu brasiliano si deve intendere a livello filosofico come “un unico movimento continuato” da quando si comincia la lotta in piedi al suo termine al suolo.
Questa continuità a livello didattico e arbitrale viene scomposta per facilità di apprendimento e di giudizio.
Tutto questo fa capo a delle concezioni fondamentali legate allo scopo della disciplina che ne determinano così l’anatomia e quindi il flusso della lotta stessa.
Questa scomposizione puramente teorica di una lotta, che di fatto non ha reali interruzioni (salvo quelle legate a falli o al limite dell’area di gara), crea il punto di rottura più grande perchè è estremamente difficile insegnare tecniche frammentate e poi integrarle in un flusso di lotta continuo, sempre diverso di lotta in lotta, essendo il jiu jitsu brasiliano una lotta situazionale e per tanto imprevedibile.
Diviene, quindi, fondamentale maturare una conoscenza profonda dell’arte, sia tecnica che pratica, difficilmente acquisibile se non ci si cimenta in lotte di allenamento o ancora meglio in competizione.
Il processo formativo pratico è sicuramente fondamentale per permette di testare ciò che abbiamo imparato nella teoria e correggerlo qualora ci fossero degli errori tecnici, nel timing di esecuzione o anche strategici legati all’integrazione della tecnica studiata all’interno del NOSTRO flusso di lotta. Solamente in questo modo saremo in grado di sviluppare una conoscenza intima della posizione e delle sue meccaniche rendendoci in grado di riconoscere quando essa sia necessaria e confidenti ed efficaci nell’utilizzarla.
Occorre quindi, a mio avviso, interrogarsi su quale sia il reale obbiettivo che vogliamo raggiungere e da lì tracciare vari percorsi che ci portino sino a quel punto al fine di non naufragare in un oceano di possibilità tecniche o di ridurre drasticamente le opzioni per non sbagliare, mutilando di fatto tale disciplina.
Pensando dal lato di chi insegna è quindi determinante capire che per far sì che ciò che stiamo spiegando sortisca degli effetti deve sempre essere contestualizzato al raggiungimento dell’obbiettivo principale che il jiu jitsu ha per noi.
Questo è ciò che io chiamo dare struttura.
Senza una struttura che sorregga l’insieme di posizioni studiate queste rimangono pura conoscenza teorica non ri-spendibile in fase di combattimento.
Al contrario praticare questa arte marziale senza creare un ordine mentale e delle priorità tecnico-tattiche ci porterebbe solamente ad imitare movimenti senza avere coscienza e quindi capacità di riadattamento e di contestualizzazione.
Il che ci pone davanti alla delicata questione di sviluppare un metodo e con esso un programma didattico in grado di sviluppare al contempo cognizione, conoscenza e capacità di applicazione pratica.